I reati culturalmente orientati

I reati culturalmente orientati
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L’evoluzione della Società civile e la sua progressiva e repentina trasformazione in una organizzazione multietnica, ha posto il problema del contemperamento di interessi tra cultura di origine dello straniero e diritto del Paese ospitante.

I concetti giuridici moderni sono secolarizzazione della teologia morale ed espressione dei costumi e degli interessi che animano una Comunità di individui.

Un comportamento realizzato da un soggetto appartenente ad un gruppo minoritario può essere lecito ed addirittura incoraggiato, all’interno del proprio gruppo di appartenenza; illecito e punibile, invece, nel nostro ordinamento.

Si pensi alle pratiche di accattonaggio imposte ai minori, quale retaggio culturale di alcune popolazioni di etnia gitana; o alle procedure di mutilazioni dei genitali femminili ammesse e legate a riti propiziatori, in alcune zone del centro Africa; o alla figura patriarcale dell’uomo connotata da violenza e prevaricazione, nelle famiglie di origine balcanica; o da ultimo, alla consuetudine degli indiani “Sikh” di portare con sé un coltello rituale, denominato “Kirpan”.

Come insegna il Massimo Organo di Nomofilachia,a seguito di una lunga “querelle” giurisprudenziale, con un orientamento, ormai, tetragono: “il soggetto che si inserisce in una società multietnica è tenuto a prestare osservanza all’obbligo giuridico di verificare preventivamente la compatibilità dei propri comportamenti con i principi che la regolano e, quindi, la liceità di essi in relazione all’ordinamento giuridico che la disciplina” (Cass. n. 14960 del 2015).

Il modello adottato dal legislatore nazionale, sulla scia dell’esperienza francese, è assimilatorio-discriminatorio: tende ad assorbire le unità di minoranza presenti sul territorio e a privarle del carattere dell’autonomia e della individualizzazione.

Lo straniero accetta, suo malgrado, di conformarsi alla normativa vigente nel Paese che lo ospita, vedendosi addebitare, diversamente, ipotesi di reato con pene fortemente afflittive (vedasi, su tutti, i capi di imputazione a titolo di maltrattamenti o di riduzione in schiavitù, con reclusione anche fino a 20 anni, nella suesposta pratica di induzione all’accattonaggio di soggetti minorenni: comportamento certamente censurabile nella civiltà occidentale, ma lontano dal concetto di “schiavitù” nella realtà culturale d’origine).

Accanto a questo orientamento granitico c’è da evidenziare, però, una risalente sentenza del Pretore di Torino di 30 anni addietro, la quale afferma, sinteticamente, che giudicare illeciti usi e costumi di un popolo diverso dal nostro, sia una forma di inaccettabile “monolitismo culturale, se non di razzismo”.

È di palmare evidenza che un conto è perpetrare un reato al solo scopo di ledere un bene giuridico altrui (sia esso patrimoniale che personale), altro è tenere una condotta che si sostanzi in comportamenti biasimevoli secondo una regola di diligenza e ordine pubblico interno, ma ampiamente permessi ed accettati secondo una consuetudine straniera.

A riguardo una dottrina autorevole ha avanzato l’idea di creare una scriminante dai connotati culturali, al fine di giustificare comportamenti illeciti.

Prima di entrare “in medias res” pare necessario descrivere, sinteticamente, il pingue palcoscenico morfologico delle esimenti, di cui le scriminanti costituiscono una “species”.

Il reato si compone di tre elementi: fatto tipico, antigiuridicita’ e colpevolezza.

L’antigiuridicita’ è esclusa quando vi sia una circostanza esimente.

Le esimenti si dividono in scriminanti, scusanti e cause di non punibilità.

Le scriminanti (o cause di giustificazione o cause di liceità) rendono lecito un fatto tipico. Possono essere generiche o specifiche: le generiche sono, “inter alia”: stato di necessità, legittima difesa, consenso dell’avente diritto…

Le scusanti, che rendono un fatto tipico non colpevole, annoverano: il caso fortuito( “qui nullo humano consilio previderi potest”), l’errore di fatto, la causa di forza maggiore (“vis maior cui resisti non potest”) il costringimento fisico.

Le cause di non punibilità, infine, rendono non punibile un fatto di reato (“particolare tenuità del fatto”, ad esempio).

Ad ingolfare il già copioso caleidoscopio di ipotesi vi è l’adesione ad una teoria di origine tedesca che prevede anche la categoria ultralegale delle cause di inesigibilita’ (si pensi al caso dell’alpinista che, imbattutosi in una tormenta, recida la corda che lo lega al turista-visitatore facendolo precipitare nel dirupo; o al medico condotto, esausto per il notevole numero di interventi, che non accorre a casa del malato che lo chiama invano), l’ordinamento afferma che, in questi casi, non si possa esigere dall’agente un comportamento doveroso e che la condotta antigiuridica sia scriminata.

Tornando al caso di specie: lo straniero che pone in essere una condotta astrattamente idonea a ledere un bene giuridico ma che è espressione dell’esercizio di un diritto tutelato dalla Costituzione (la libertà religiosa e culturale “lato sensu” intesa, sono previste dall’ art 19 Cost.), commette un reato o l’antigiuridicita è scriminata?

Se la libertà di espressione del proprio credo religioso è principio costituzionale, non si può negare rilievo ai suoi corollari: le azioni poste in essere in nome di una identità culturale e religiosa non descrivono una condotta contraria a principi normativi.

Resta il difficile compito dell’interprete di valutare l’ “actio finium regundorum” della scriminante: entro quali confini si muove l’esercizio legale di un diritto, in specie quello alle pratiche religiose e culturali da parte dello straniero, in contrapposizione alle istanze di protezione e tutela del cittadino del Paese ospitante e dell’ordine pubblico?

Abbandonata, ad ogni modo, l’idea di regolare la questione culturale predisponendo una scriminante “ad hoc”, stante la genericità della fattispecie che peccherebbe di tassatività’, precisione e determinatezza, è parsa ragionevole l’idea, “de iure condendo”, di smussare gli angoli della questione attraverso l’introduzione di una mera circostanza attenuante di natura”culturale”.

Questa, a differenza della scriminante, non rende lecito (e quindi non punibile) un fatto tipico, ma diminuisce la pena per il particolare valore morale o sociale dell’azione, sebbene lesiva di un interesse giuridicamente protetto.

Lungi dal ritenere scriminati comportamenti che si sostanzino nella lesione o messa in pericolo di un bene giuridico costituzionalmente tutelato, sembra opportuno inquadrarli come elementi accidentali, che stanno attorno al reato (circostanze) e che descrivono più obiettivamente la portata della fattispecie criminosa, fungendo da giusto contemperamento tra la tutela della cultura giuridica dello straniero e lo stato di diritto nazionale.

Ai fini di una sicura calcolabilità della pena, di una agevole accessibilità alla norma e prevedibilità degli effetti di una condotta, sembra, infatti, opportuno eliminare la discrezionalità in capo al Giudicante nella valutazione delle fattispecie di reato “culturalmente orientate” e prevedere, in astratto, una mera diminuzione della pena ogni volta che il fatto tipico sia espressione di un precetto comportamentale formalmente riconosciuto nel Paese dello straniero.

La circostanza,(dal latino “circumstantia”: circum-stare, stare attorno), è un elemento non costitutivo del reato che, accedendo a una fattispecie già perfetta, comporta un inasprimento o una mitigazione della pena edittale.

È un “accidentalia delicti”, non rileva ai fini dell’esistenza del reato. È appunto, definita “accidentale”, influendo solo sul “quantum” di pena da irrogare.

Così come è auspicabile un intervento normativo teso ad attenuare quelle ipotesi di reato espressione di una cultura differente ma, ad ogni modo, offensiva di un bene giuridico, va rivalutata anche la configurabilità di ingiusti inasprimenti della pena legati a retaggi culturali.

Si pensi, ad esempio, all’aggravante di aver agito per motivi abietti o futili contestata, in un caso passato alla cronaca , al soggetto, di origine musulmana, che “aveva tentato di uccidere la figlia perché disonorato dalla giovane la quale, non solo aveva avuto rapporti sessuali senza essere sposata e da minore, ma aveva avuto tali rapporti con un ragazzo di fede religiosa diversa, violando, dunque, i precetti cardine dell’ Islam”. (Cass. n. 51059 del 2013)

Per quanto si tratti di motivi non condivisibili nell’odierna civiltà occidentale, sembra irrispettoso e iniquo definire gli stessi “futili”: si tratta di regole di condotta ataviche e tralatizie, espressione di un retaggio culturale e religioso che non può essere relegato ad un agire per motivi di scarsa importanza o banali e, quindi, fondanti un giudizio di aggravante del fatto contestato.

Nel caso di specie, resta la messa in pericolo del bene-vita: condotta ingiustificabile e deprecabile; ma la Corte ha riqualificato le motivazioni come non abiette o futili,in quanto culturalmente orientate e perciò non aggravanti il fatto delittuoso.

Come spesso accade in un giudizio di equivalenza tra più interessi meritevoli di tutela che siano contrapposti, si sta cercando (la positivizzazione della norma è tuttora “in fieri”) di contemperare la funzione general-preventiva, special-preventiva e retributiva della pena e le istanze di multiculturalita’: risultato che si raggiunge grazie all’ applicazione delle circostanze del reato che, ritagliando la discrezionalità del giudice nell’irrogazione della pena, consentono di adeguare maggiormente la stessa al disvalore del fatto concreto.

 

Avv. Mauro Casillo