Actio libera in causa

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LO STATO PREORDINATO DI INCAPACITA’ DI INTENDERE O DI VOLERE

L’imputabilità è la libertà di autodeterminazione: uno “status” che consente ad un soggetto di avere contezza del valore delle sue azioni,comprendere i limiti di una condotta lecita e il disvalore di un comportamento antigiuridico.

L’art. 85 del codice penale rubricato :”Capacità di intendere e di volere” prevede che: “Nessuno può essere punito per un fatto previsto dalla legge come reato, se, al momento in cui lo ha commesso, non era imputabile”.

A chi non è “padrone di sé” non può essere mosso alcun addebito di colpa.

L’imputabilità assurge, dunque, a presupposto della colpevolezza: in assenza di capacità di intendere e di volere non è ammissibile un giudizio di rimprovero e non è, dunque, configurabile alcun reato in capo all’agente.

L’ordinamento, infatti, non ha interesse a punire un soggetto che non ha percepito il disvalore penale della condotta messa in atto, poiché la pena svolge

(anche e soprattutto) la funzione di rieducare il condannato e reinserirlo nella Società: un soggetto incapace di intendere e volere non può comprendere il valore delle azioni che compie e il biasimo rivoltogli.

Quando, però, taluno si pone, volontariamente, in stato di incoscienza al fine di commettere un reato per vincere la controspinta inibitoria alla commissione di un delitto o al fine di procurarsi una scusante, l’ordinamento predispone una “finzione giuridica”: viene applicata comunque la pena sebbene chi abbia commesso il fatto era in stato di incapacità.

Tale istituto denominato “actio libera in causa” trae l’abbrivio dalla dottrina cristiana e dalla Teologia (in specie, dalle riflessioni sociologiche di Sant’Agostino) e nasce per giustificare l’applicazione della pena nei casi di peccati commessi da soggetti incapaci di intendere o di volere, che si erano posti, di proposito, in stato di incoscienza al fine di commettere l’azione illecita e risultarne impuniti.

L’ordinamento giuridico e, in specie, la branca penalistica, ha accolto sempre con favore i principi di natura cristiana (tra cui quello in oggetto) tanto che il giurista ottocentesco Carl Schmitt descrisse la

sistematica dei reati e dei concetti giuridici moderni “lato sensu” intesi, come “secolarizzazione della Teologia e della morale”.

La “ratio” della teoria delle “actiones liberae in causa”, ossia la valutazione di politica criminale per cui si ritiene punibile un soggetto non imputabile, è stata oggetto di vivace dibattito in dottrina.

La tesi che, per lungo tempo, ha prevalso è quella della collocazione dell’azione esecutiva del reato nel momento in cui il soggetto si pone volontariamente in condizione di incapacità.

Si fa retrocedere il giudizio di rimproverabilità ad un tempo antecedente la realizzazione del fatto di reato e lo si considera meritevole di pena.

Altra dottrina, invece, rinviene l’ “ubi consistam” nel nesso causale, secondo il principio del “causa causae est causa causati” (la causa dell’incapacita è causa del fatto tipico di reato): chi determina volontariamente una situazione dalla quale deriva un evento lesivo è chiamato a rispondere della fattispecie di reato, a prescindere dalla eventuale volizione dell’evento, per il solo nesso di causalità.

Troppo cervellotico. Facciamo un esempio.

Tizio ha intenzione di aggredire Caio.

Spaventato, però, dalle conseguenze che gli deriverebbero da una eventuale condanna decide, volontariamente, di porsi in stato di temporanea incapacità di intendere e di volere al fine di procurarsi una scusante che lo lasci impunito. Assume, dunque, un cocktail di psicofarmaci; subito dopo, inibito dalla sostanza psicotropa, aggredisce Caio.

Chiamato, in giudizio, a rispondere del reato di lesioni e del risarcimento dei relativi danni adduce la non imputabilità della sua condotta, in quanto “incapace di comprendere il significato del proprio comportamento e a rendersi conto del valore sociale delle proprie azioni nel contesto della realtà in cui agisce” ( cfr. Fiandaca-Musco).

Il “vulnus” all’ordinamento è chiaro e pericoloso: sarebbe, in questo modo, possibile aggirare le norme sull’addebito di colpevolezza ponendosi, volontariamente, in uno stato di incapacità di intendere e di volere.

La dottrina afferma però, come visto, che la capziosa configurazione di uno stato di intossicazione o ubriachezza volta a mascherare la colpevolezza della condotta, è punibile nella forma dell’ “actio libera in causa”.

La previsione è positivizzata nel codice penale e prevede, persin anche, un’aggravante della pena nel caso di specie ( artt. 87 e 92 c.p.).

Problemi sono sorti, tuttavia, in ordine all’elemento soggettivo; a seguito delle note sentenze della Corte Costituzionale del 1988 la responsabilità oggettiva (in prima battuta addebitata all’agente) è stata espunta dal nostro ordinamento: la Consulta statuisce inderogabilmente e tassativamente che, al soggetto colpevole, deve essere mosso un rimprovero che abbia quale requisito soggettivo minimo, almeno, il titolo di colpa.

Esclusa la responsabilità oggettiva si è ritenuto di poter sussumere, allora, la fattispecie nel fuoco del dolo (in specie nella forma del “dolo eventuale”): Tizio, nel momento in cui, volontariamente, preordina il suo stato di incapacità al solo fine di avere una giustificazione nella commissione del reato, accetta il rischio della futura lesione di un bene giuridico altrui e ne risponde a titolo di dolo, seppur nella forma più tenue: il dolo eventuale.

Tale sarebbe la ricostruzione della condotta volendo aderire all’ antica tesi dell’ “accettazione del rischio”, elaborata dal giurista novecentesco Frank; ma anche a voler applicare la più recente teorica del

“bilanciamento di interessi” (elaborata nella storica Sentenza “Thyssenkrupp” ,) si avrebbe il medesimo risultato: il soggetto, in stato di incapacità preordinata, chiamato ad un contemperamento di interessi antitetici, ha preferito perseguire il proprio interesse piuttosto che tutelare l’incolumità del soggetto passivo accettando il rischio di una lesione di un bene giuridico altrui: rileva il dolo eventuale.

Il legislatore, dunque, non solo ha previsto una “fictio iuris” che permetta di punire un soggetto per un’azione antecedente la condotta di reato; ma, con una precisa scelta di politica criminale volta a reprimere l’utilizzo di sostanze psicotrope e alcoliche e a scongiurare l’aberrante ipotesi di lasciare impunite condotte di preordinata intossicazione e ubriachezza, ha statuito all’art 92 c.p. un aumento fino ad un terzo della pena che dovrebbe essere inflitta per il reato-base commesso dall’imputabile.

Stante, dunque, la rilevanza penale nel caso che ci occupa, un cenno merita, in conclusione, la configurazione di una responsabilità civile da risarcimento del danno cagionato dall’incapace.

Anche laddove il Giudicante non valutasse preordinato lo stato di intossicazione dell’agente, mandando quindi impunito l’incapace sia agli effetti

penali che a quelli civili per inimputabilità’, la lesione di un interesse giuridicamente protetto causativo di una perdita (il danno) che subisce il soggetto passivo, sarebbe risarcibile da chi è tenuto alla sorveglianza dell’incapace (salvo che provi di non aver potuto impedire il fatto): come previsto dalla norma rubricata “Danno cagionato dall’incapace” all’art 2047 c.c..

In relazione alla natura giuridica della responsabilità, prevista dall’articolo ora citato, si discute se si tratti di responsabilità per “culpa in vigilando” o di una responsabilità oggettiva per fatto altrui o, ancora, di responsabilità aggravata.

Si tratta, ad ogni modo, di una mera questione teorica destinata ad affollare l’aula delle discussioni infeconde; in ogni caso è dovuto il risarcimento.

Ciò che è opportuno evidenziare è, invece, come la giurisprudenza sia particolarmente stringente nell’esigere dal sorvegliante la prova di aver adottato tutte le cautele possibili, per evitare il fatto, pena l’addebito del risarcimento del danno causato dal sorvegliato.

Ed ancora, sempre nella medesima disposizione è statuito che, laddove il danneggiato non abbia potuto ottenere il risarcimento da chi è tenuto alla

sorveglianza, il giudice, in considerazione delle condizioni economiche delle parti, può condannare l’autore del danno (l’incapace) a corrispondere un’equa indennità. Evidente qui il correttivo alla regola della non imputabilità, civile e penale, del soggetto incapace, finalizzata alla tutela del diritto del terzo incolpevole: quest’ultimo ha, comunque, subito un danno e l’ordinamento deve approntare un rimedio (anche solo parzialmente) risarcitorio e ripristinatorio dello “status quo ante” con funzione di riequilibrio economico.

Le motivazioni sottese a derogare alla regola generale sono di tipo equitativo: sull’altare degli interessi in gioco primeggia la posizione del terzo danneggiato rispetto alla norma di favore per l’incapace.

A temperare la portata applicativa della statuizione vi è, ad ogni modo, la valutazione, “case by case”, dell’interprete, che terrà conto delle condizioni economiche delle parti nella quantificazione del danno.

AVV. MAURO CASILLO